Parrocchia angelodiverolaSan Lorenzo Martire in Verolanuova

Arcangelo Tadini

Canonizzato il 26 Aprile 2009 da Benedetto XVI | proclamato Beato il 3 ottobre 1999 da Giovanni Paolo II

 


Ricerche di don Mario Trebeschi

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Tadini e la Filanda

 

Il Tadini rappresentato tra le sue operaie e le suore, nella filanda da lui iniziata è la scena più nota e qualificante della sua vita e della sua opera. È lo stesso Beato che consiglia l’immaginario pittore a dipingere persone, movimenti e colori: si tratta di donne, chiuse in ambienti malsani, con le mani nelle bacinelle colme di acqua calda, per immergervi i bozzoli per la dipanatura del filo, così come è descritto in una circolare del 1909, diretta alle operaie:

"Se la classe operaia in generale è miserabile, quella che lavora nei setifici è la più miserabile: perché donna, e perciò un essere tolto alle sue naturali occupazioni; perché deve lavorare in un ambiente sempre chiuso, caldissimo, attaccata ad una bacinella dove l’acqua bolle a 80° centigradi; per apprendere bene quest’arte, l’operaia deve entrarvi nella più tenera età, ed esercitarvici continuamente, senza aver tempo d’imparare neppure ad accudire alle domestiche bisogna; la materia che forma l’esercizio di questa operaia è tra le più delicate, preziose e difficili; quest’operaia deve avere, attitudine non comune, buona vista, se non robustezza certo sanità, in modo speciale poi un’attenzione tale che neppure le arti più difficili ne richiedono l'uguale; l’operaia in quest’arte, sia forse per i grandi trabalzi dei prezzi nel mercato serico, sia forse perché tra la seta-filo, e la seta-stoffa, vi siano troppe indebite mangerie, è assai poco retribuita; questa operaia non può neppur sperare in un almeno lontano avanzamento di posto e miglioramento di paga; in ogni altro mestiere chi non può più lavorare tutta l’intera giornata, può lavorare alcune ore, più o meno a seconda della volontà, delle forze e della salute che ha, o molto meglio lavorare a sé, avviare una piccola industria ecc. In quest’arte, no; o lavorar di continuo e sotto gli altri sempre, o cessare".

Le condizioni di lavoro accennate dal Tadini, non sono raffigurabili in quadro: l’ambiente caldissimo, l’orario di più di dieci ore al giorno, la gioventù sciupata di donne, impedite nella pratica delle attività casalinghe e perfino di accasarsi, spossate e sfruttate come "limoni spremuti, senza sostentamento".

Il Tadini e la filanda

Come era giunto, il Tadini, alla filanda? A Botticino c’erano due filande: una, la Zamara, detta "filanda alta" occupava una ottantina di operaie, l’altra di proprietà Barbiani, detta "filandina", una ventina di giovani. Ma queste non bastavano per dare lavoro a tutti, specialmente le donne, per cui molte ragazze di Botticino si recavano in altri paesi, specialmente a Calcinato, e a Lonato, dove vi erano grosse filande.

Le ragazze partivano il lunedì per Lonato, a piedi o su mezzi di fortuna e tornavano al sabato; facile immaginare lo sbando cui erano soggette, rimanendo lontane da casa, alloggiate chissà dove.

Il Tadini, che osservava preoccupato questa realtà dalle tristi conseguenze, passò senza indugio dall’osservazione all’azione, per porvi rimedio. Pensò di iniziare lui stesso una filanda, attiva per tutto l’anno.

Si rivolse prima al Barbiani, poi ad altri proprietari, affinché si associassero a lui, ricevendone però risposta negativa.

Tentò, allora, in proprio; non essendogli riuscito di acquistare un appezzamento di terreno vicino alla strada principale, su cui erigere il fabbricato, ne comperò un altro in contrada S. Michele, nel 1894, e si mise subito all’opera.

Egli stesso tracciò i disegni, chiamò capomastri e muratori e iniziò la costruzione. Utilizzò come capitale il suo patrimonio, qualche prestito ottenuto da privati, che gli furono soci, Bortolo Moscheni, Giuseppe e Luigi Soldi e altri e un mutuo di L. 130.000 concessogli dalla Banca S. Paolo.

Nel 1895 la costruzione (44 x 9 metri) era terminata, con relative attrezzature attigue e interne, vasche, bacinelle (in numero di ottanta), ventilatori, caldaia, motrice, macchinario vario.

La filanda era a due piani e aveva un ampio portico (31 x 6.50 metri); vi erano annessi una casa civile per l’alloggio del direttore e tre locali su tre piani, per il ricovero delle filandiere, con camerate per dormitorio.

Il direttore era Angelo Barbiani, già proprietario della "filandina".

L’idea della filanda era temeraria, per vari motivi.

Perché il Tadini era sacerdote, inesperto in affari economici; perché da non molti anni si era stabilito in parrocchia e la sua esperienza era ancora pressoché agli inizi; perché l’impresa poggiava su un capitale non di grossa entità.

Inoltre, una iniziativa simile andava contro la tendenza degli imprenditori bresciani, i quali non erano propensi a impiegare risorse in questo settore: infatti, a quell’epoca, una buona metà delle nostre filande e filatoi era condotta da industriali milanesi, bergamaschi, svizzeri o francesi.

Tutte ragioni che al Tadini non interessavano, preoccupato com’era di venire incontro alla sua gente, a tal punto da avviarsi su strade a prima vista impraticabili.

La filanda, pur traballante per difficoltà economiche, cominciò a operare; e continuò: nel 1901 ospitava 135 operaie.

Il progetto del Tadini

Quale finalità sociale intendeva realizzare il Tadini con la sua filanda?

La già citata circolare del 1909, affermava che alcuni avevano ideato di migliorare le dure condizioni delle filandiere mediante l’aumento della paga e la diminuzione delle ore di lavoro; ma la situazione delle operaie era diventata sempre più miserabile.

Il Tadini proponeva il suo rimedio, partendo da una visione positiva del lavoro: "guadagnarsi il vitto col sudore della propria fronte", secondo il detto biblico, non è una condanna, ma "un insegnamento per non allontanarsi da Dio, Provvido Creatore, che ha stampato nella natura, ciò che deve bastare a tutti i bisogni presenti e futuri della vita umana".

Il rimedio del Tadini era di considerare la filanda come luogo dove è possibile ricreare rapporti di tipo casalingo; per questo il Beato aveva aggiunto, nel 1898, un convitto in una villa attigua allo stabilimento, la villa Battaggia Zani, comperata con un prestito della Banca S. Paolo, e attrezzata con locali adibiti a dormitorio e mensa. Si possono ritrovare due momenti nel progetto del Tadini; un primo, di procurare facilmente lavoro a operaie altrimenti sottoposte a disagi e pericoli morali per procurarselo; un secondo, di rendere la filanda come ampliamento dell’ambiente familiare, che necessita del lavoro per necessità di sopravvivenza.

La circolare dell’aprile 1909 affermava che le operaie ospitate nel complesso della filanda potevano essere sicure del loro posto di lavoro e svolgervi anche lavori domestici: "il miglioramento, l’avanzamento se non l’hanno nel posto, l’hanno nella sicurezza. L’incubo dell’incerto avvenire non è più; date a quest’arte con premura ed attenzione, l’hanno per unica occupazione, si perfezionano in essa. Altre pensano alle domestiche bisogna. Per esse il setificio è un gradito ritrovo, una palestra, un campo di vittorie".

L’intento del Tadini era, quindi, di garantire lavoro, ma anche di migliorare i rapporti umani; voleva ricuperare finalità sociali e morali che l'industrializzazione andava dimenticando, preoccupata solo dell’efficienza formalizzatrice e spersonalizzatrice dei rapporti sociali. Il convitto del Tadini nel 1901, ospitava una cinquantina di operaie.

(continua)




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